1986 Simulacro imperfetto

Foligno, 1986

Italo Tomassoni

Sergio Monari è persuaso che le forme di un contesto artistico premono incessantemente verso altre forme e altri contesti. Così ha voluto confrontarsi con questa idea generale rilevando che, se è scontato che nessun effetto d’arte si determina al di fuori del testo, è altrettanto reale che nessun contesto è mai sovradeterminato abbastanza. Se l’esclusione della storia dell’arte è stato l’effetto di una emarginazione della totalità di essa, la riappropriazione del senso della totalità non può soffrire esclusioni, altrimenti la sua idea scomparirebbe nell’idealità. In questa ottica non basta aver esperito (come Monari ha esperito) i temi della ripetizione, della copia, della citazione, dell’originale e dell’origine; ma ci si deve predisporre ad affrontare la questione più generale della sovradeterminazione ulteriore del testo della sua impossibilità di saturazione e della sua illimitata apertura non solo ai testi minori, agli innesti e alle manipolazioni (Museo Parallelo, che è l’idea dell’escursione contemporanea vissuta come esilio e differimento continuo, differenza, distanza ma anche contemplazione della totalità in una nuova idea di prospettiva) ma anche a quella dilatazione dell’interpretazione del testo di riferimento spinta fino alla vertigine del suo smarrimento.

Ciò che non hanno minimamente capito coloro che dell’Ipermanierismo si accingerebbero a fare una ennesima accademia o una ennesima occasione di neo-avanguardia, è che il reticolo delle affinità predispone un tessuto di contatti, innesti, tracce che rinviano sempre oltre il limite del loro fuoco verso un accrescimento che non è accumulo antiquariale, filologico e sperimentale, né meno che mai nostalgia per il tempo della pittura; ma elezione che provoca l’accelerazione della qualità. Far proliferare la surdeterminazione significa allargare il basamento di un Ipermanierismo che, se fino ad oggi ha avuto ben determinati fuochi di riappropriazione (il Simbolismo, l’Arcadia, il Rinascimento, il Manierismo, il Vedutismo, il Barocco, il neoclassicismo) non può escludere anche l’intreccio di queste aree tra loro e spingersi verso altre aree, ponendosi anzi nella prospettiva di una continua apertura/chiusura, identità/differenza, prossimità/distanza; ove ogni ricordo e ogni amore è reso possibile dal mutamento di identità che deriva dal coniugarsi/tagliarsi delle diverse tracce della declinazione delle forme, dentro il tritatutto o macina-cioccolato della coniugazione.
Chi ritenesse questa esperienza una variante dello sperimentalismo, confermerebbe il clima di fraintendimento che attorno a questa esperienza si va ogni giorno di più sviluppando. Monari ha intuito che non esiste un fuoco privilegiato come necessità logica di un processo e trova naturale fare macchina indietro fino ai vestiboli della storia dell’arte, al dato remotissimo, al punto in cui l’arte è confusa con la prima coscienza di sé; non è più caos ma non si è ancora organizzata in cosmos.

Reduce dalle suggestioni di una plastica classico-rinascimentale e di una più sgranata visionarietà pittorica tardo-barocca, Monari assorbe l’idea martiniana della scultura come lingua morta e l’affonda fino a collocarla nell’istmo risicato dove morte e vita si tagliano e si lambiscono; l’amnio del ricordo primo, l’origine, la nascita in sé della rappresentazione. Un pendolo che tocca la disseminazione ancestrale dei segni dell’arte, il tempo e il luogo in cui la creatività non ha ancora a che fare con il mondo alto e uranico delle idee (la cui prima formulazione risale al Timeo di Platone) ma è strettamente ancorata alla terra, quasi incorporata ad essa come la grande madre che, ancora prima di ogni articolazione, viene calamitata verso il basso per favorire il suo riassorbimento al grembo tellurico. Un pendolo che tuttavia si predispone a ritrarsene nel momento in cui si trova ad essere tanto infondato/sfondato quanto ipo- determinato, e esperisce il passaggio della soglia accecante del nero, terra-elemento indifferenziato, di quell’invisibile informe che rende possibile il vedere e le forme del linguaggio figurativo.

Da un osservatorio ipermanierista Monari ha suggerito che la proliferazione iperdeterminata non esaurisce da sola il gioco multiplo delle dimensioni dell’arte; e che può essere eccitante complicare il gioco anche attraverso il suo depotenziamento, lasciandosi trascinare dalla “gravità” della storia dell’arte lungo una sorta di via privata alla verità come gioco di illuminazione e nascondimento, di rivelazione e velamento, di sprofondare e riaffiorare. Per un attimo ha voluto “scaricare” la macchina, vivere come arricchimento il depotenziamento dell’immagine, misurarsi con la attrazione notturna dello spro-fondo, guardare al di là del visibile culturale; quasi un voler vedere la vista; la prima, originaria ipodeterminata visione dell’arte cui si attinge precipitando nell’ombra della forma che non è ancora proclamata nella sua gloria visibile piena, ma è densa dell’energia onnipotente dell’invisibile. Tropismi di margine, orlo di un abìme che tira giù e che non riuscirà mai a circoscrivere l’economia della rivelazione interiore, ma anzi la istiga e la provoca proprio sul margine e sullo sprofondamento, su quella impossibilità del non cessare di esserci sulla quale Lacan e Heiddegger hanno costruito il reale.

Come il pendolo di questo racconto non si è fermato negli inconciliabili asili/esili del Museo Parallelo ipermanierista; così non si interrompe in questa remotissima cerniera. E il suo moto, che non può cessare di scriversi e di inscriversi, è già, per irresistibile attrazione, calamitato oltre l’esperienza del limite, verso una traiettoria più maestosa e lunga, dopo queste brevi ma intensissime visioni di confine.

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