2000-2005 Porci Scomodi

Gian Ruggero Manzoni, Marco Sangiorgi, Giovanni Scardovi

Il distacco voluto, 2001

Gian Ruggero Manzoni

Diceva Kern, uno dei massimi studiosi dell’orfismo, che nel “distacco dal mondo degli speculatori e dei profittatori (l’emersione dall’ade)” risiede la capacità del poeta di raggiungere quell’armonia di ‘canto’ che lo ricongiunge alla “casa degli dèi”.

Infatti credo che tutto il percorso di ricerca condotto finora da Sergio Monari, e anche da noi letterati e artisti (Scardovi, Serafini, Tugnoli, Montanari, Sangiorgi, il filosofo Melandri più il sottoscritto) che, come Monari, ci siamo forgiati in quella che affettivamente definiamo come la ‘scapigliata’ Palestra lughese (che della romagnolità e dell’emilianità in arte è stata riferimento consapevole o inconsapevole per circa un decennio), sia stato rivolto al piacere di ritrovare un’ ‘essenza primigenia’ nella quale “ab-bracciare la pace…” (come scriveva G.G. Gervinus nel 1842 a Gottinga) “…quella pace esaustiva che il respiro della natura ti effonde nei polmoni” (motto che in tedesco suona come un’arpa).

“canto dei canti l’altera e aspra lotta / che ci guidò al-
l’estasI sublime / che trasformò il bisogno in nullità di de-
siderio”.

In questi tre versi di Aulo Giano Parrasio, nome umanistico dell’enciclopedico Giovan Paolo Parisio (1470- 1522) fondatore dell’accademia cosentina, penso di cogliere quello che in Sergio sia divenuto il profilo ‘iperboreo’ nonché maturo della sua umanità e delle sue opere più recenti. Difatti estasI fu la parola che segnò, in un tardo pomeriggio, il dialogo fra noi intercorso seduti a un caffè posto nella piazza del castello di cesena, subito dopo aver visitato una sua mostra personale alle vecchie Pescherie di quella cittadina. con la definizione di estasI (dal greco ékstasis: oltre la mente, al di fuori di essa), noi occidentali contemporanei, attraversando il pensiero di Gerstenberg e Herder poi di Schlegel e Novalis, fin dall’ottocento abbiamo cercato di dare una risposta (“strutturata alla mobilità”, così la interpreto) alle tre Percezioni fondamentali (santai) della filosofia orientale buddista: la Percezione transitoria (ketai), la Percezione latente (kutai) e la Percezione della via di Mezzo (chutai), quelle tre pratiche di meditazione (oltre- modo articolate) che sono necessarie per capire il carattere essenziale della vita e di ogni entità presente nell’universo. difatti è impossibile considerare il raggiungimento della comprensione di fenomeni tanto complessi e inafferrabili esaminandoli solo da un punto di vista prefissato, al contrario, almeno per ciò che riguarda la dilatazione soggettiva del sapere, è necessario essere flessibili e adottare infiniti punti di visione, in particolare esterni ‘al noi’. e tale genere di approccio alla comprensione è parte integrante anche della scienza moderna, in cui si scopre di continuo che una sola teoria non può adattarsi a tutti gli eventi che avvengono nel cosmo (questo è più che evidente in Matematica, dove il quinto postulato di Euclide, universalmente parlando, ormai è saltato).

Nell’estasI, in quella “dimensione di bellezza mentale cogliente il mistico” (J. van Ruysbroeck in sacrum), contemplativi come Bernardo di chiaravalle, Ugo e Riccardo San Vittore, Guglielmo di Saint Thierry, Tommaso D’aquino, Bonventre da Paduli, poi filosofi come Taulero, Eckhart o Giovanni della croce affermarono che ogni possibile variante, ogni possibile tangente, ogni possibile ’mutazione’ veniva inclusa e perciò ’assimilata’ al punto che lo scibile (accostato o compenetrante al/il mistero) invadeva completamente l’uomo per poi trasformarlo in “energia pura emanante” (Platone). Ma oltre a questa condivisibile dichiarazione, è il significato di estasi che da Bonaventura da Bagnoregio, francescano, già allievo a Parigi di Alessandro di Hales, nonché Baccelliere Biblico alla sorbona, che a mio avviso maggiormente si dimostra a noi vicino, per non dire influenzante il nostro esprimerci in arte, cioè non “quello stato dello spirito Interiore avulso dallo spirito esteriore e quindi cogliente il mistico”, ma bensì “quello stato di spirito che anche la mente del contemplativo può crearsi autonomamente”; perciò l’estasI non solo come un qualcosa di ’dato’ (di indotto), ma bensì come un qualcosa di ’autocostituito’, di ’autoprovocato’ e poi goduto.

Un’estasi in cui la componente volontaristica è accentuata (quale atto d’amore nei confronti dell’intero) e che quindi implica una capacità dell’individuo di estraniarsi singolarmente e ’spingersi nell’altrove’ allorquando lo desidera, quindi di ricorrere “all’anima intellettiva” quale forma perfetta di “speculo sostanziale” per mezzo di un transfert (psicopedagogico) autoimposto. da ciò, per chi conosce la scolastica, l’aristotelica definizione di IleMorFIsMo unIversale, come risultanza ultima di unità tra materia e forma voluta dall’uomo-artefice-demiurgo (cioè dal ’mago’, quale ordinatore della materia informe a immagine e somiglianza di una realtà ideale). Con tali premesse si può comprendere in toto il lavoro scultoreo di testimonianza simbolica portato avanti da Monari. Una postulanza, nel suo caso ‘pagana’, perché ‘pàntea’, infatti ricca del composito, rivolta al narrare il primato della natura e la memoria di quei codici ‘etnicoculturali’ partoriti dalla contemplazione di essa fin dai tempi in cui le civiltà Mediterranee (fautrici dell’età classica) sono apparse in questo mondo. Ora, per tornare all’IleMorFIsMo, “coscienza liberata dal bisogno imposto dal ‘vizio’ perché intrinseca con virtute alla carne e al genio stesso dell’uomo distaccato” (così sostenne ruggero Bacone nell’opus maius), è da notarsi il modo in cui avicebron (shelomoh ben Jehudah ibn Gabirol, poeta ebreo spagnolo dell’XI secolo, tradotto in latino dal Guindisalvi) ha considerato il tema dell’ “intrinsichezza tra materia e forma” (nel suo Fons vitae, in cui detto stato veniva definito più volte con la parola senso o con la formula principio dell’arcaico coscienziale) trasmettendolo a noi contemporanei tramite l’idea di anima Intellettuale sostenuta dalla teoria sulla costituzione degli enti (e non dell’ente unico!) e di tale loro molteplicità. Fondandosi sull’identificazione del concetto di materia con quello di ‘potenza fattiva’, avicebron (da cui Hales e Bonaventura hanno imparato) affermava inoltre che ‘tutte’ le sostanze, comprese quelle spirituali (come appunto le anime Intellettive da sempre coniugate alle Intelligenze celesti), sono costituite di materia e forma (da ciò l’estasi visiva di esse come sintesi di Magna estetica oculare) infatti, dal momento che “si muovono di vibrazione energetica” devono possedere un “sostrato potenziale percepibile” (definito, appunto,

IleMorfismo universale) che le rende (anche se molte di queste si trovano apparentemente in stato inerziale) delle presenze viventi e mobili a tutti gli effetti. Dicendo questo avicebron, anticipando la fisica moderna, sosteneva che la ‘materia’ aveva in sé un suono, una ‘melodia’ (una ‘vibrazione’) originaria (come fu anche di Platone) e che per questa si identificava con la prima delle categorie aristoteliche, cioè la sostanza, e che tale categoria originaria ‘reggeva’ (substinet), a tutti gli effetti, le altre nove categorie definenti l’essere e l’esistere, eliminando qualsiasi speculazione ‘metafisica’ e affidandosi, unicamente, alla “concretezza armoniosa naturale” (concretezza ‘evocante’ e ‘libera’ che, secondo avicebron, solo l’arte o la Preghiera potevano ‘decantare’)… concretezza per mezzo della quale si fruiscono gli ‘elementi’, poi li si compenetrano, per quindi entrare in osmosi con essi e trarne la massima sublimazione. In tale modo l’estasI, come stato, primo e ultimo, della contemplazione, quindi della comprensione, e poi ‘nirvana’ (abbandono all’illuminazione) del sapere supremo, oltre che ‘trasporto’ verso l’assoluto (cosmico), immersione in esso e ‘pace raggiunta’, diventa non solo atto legato a una staticità meditativa, ma anche un tendere la mente, le orecchie, gli occhi e poi le mani, in maniera concreta (perciò tangibile, corporea, pratica), verso la materia, per quindi affondare le dita nella ‘massa’ per farne uscire, modellandola, quegli archetipi che definiscono le basi di questa nostra cultura europea ed iniziatica.
EstasI, perciò, come totalità di un gesto e non di una rinuncia, di un’azione e non di un’ignavia nei confronti della vita e del fare. E proprio tramite ciò si sviluppa il sapere interpretativo di Sergio Monari. un sapere di approccio “sensualmente e sensisticamente amoroso ed emozionale posto entro uno spazio e un tempo a loro volta resi sensibili alla mente e al cuore dalle pulsioni di una poiesis (nel significato di formazione produttiva n.d.a.) riconosciuta quale madre dell’ispirazione creatrice” (Marcel Proust in la prisonnière).

A tali componenti (come si è visto già care alla classicità, all’ebraitudine, alla cristianità, all’umanesimo poi al romanticismo, più o meno orfico), per dare una lettura completa all’agire di sergio, a questo punto si deve aggiungere quello che Monari ha appreso poi mutuato dalla grande tradizione del novecento. da un’iniziale impostazione figurativo-mitologica, che si richiamava a una linearità delle forme tanto cara all’ ‘estatico esteta’ arturo Martini, per poi approdare simbolicamente ai cardini formali propugnati da valori Plastici, attraverso esperienze vicine a laurana, a de Fiori o, matericamente, a visione di superficie trattate come il Marini, ecco Sergio approdare a ‘icone prototipo’ in cui la figurazione sparisce per lasciare completo spazio alla suggestione dell’elemento rappresentato, quindi ad un lirico richiamo e poi a un docile abbandono naturalistico. È comunque sempre l’ ‘ascesi’ che gli interessa di narrare, quel vivo piacere dell’animo allorquando l’uomo giunge a confrontarsi, unicamente, con gli assoluti, con gl’ ‘illimitati’ ed egemoni caratteri del ‘completo’, approfonditi, sviscerati, oppure innalzati dalla voce ossimora contenuta nella ‘congiunzione degli opposti’ o ‘nel paradosso delle analogie’.

Sebbene affascinato da grandi letterati dell’ ‘oscuro’, come artaud, celine, cioran, o come il primo camus, oppure attratto dai sommi pensatori nichilisti, a partire da Gorgia, per giungere a Hume, stirner, nietzsche, Heidegger, Benn, in cui l’oblio del problema del senso dell’essere definiva “l’ultima ora della notte di un occidente votato alla colpa di essersi plasmato ad immagine del nulla” (sartre in critica), Sergio Monari ha sempre risposto a tali innegabili ‘incantesimi’ sfruttando la componente greco-latina solare (perciò propositiva) che “l’investigazione del bello e dell’armonico” (Blanchot in lo spazio letterario) innegabilmente in sé contiene, e in tal modo egli perdura a rispondere a coloro che hanno fatto dell’arte una ‘speculazione cimiteriale’ o a chi si approfitta della crisi di un sistema elevando a opera il ‘celebrativo luttuoso’. È ancora con “il fine tratto” (Canova) che Sergio resiste all’involgarimento mercimonioso di un sommo Progetto a cui tanto hanno creduto menti come Ficino, Pico, Agostino, salutati, valla, Erasmo, Poggio, Palmieri, Manetti, Lefèvre D’etaples, Colet, Agricola, reuchlin, Bessarione, Panormita e quindi Feuerbach, per i quali “l’essenza eterna, metastorica dell’uomo” si contrappone sempre a ogni abbruttimento di intenti o a ogni negazione del valore.

È con “il sapore della grazia” (evocata dall’antropomorfismo di omero ed esiodo) che Monari pone ancora il ‘fabbricatore’ quale esempio di immutata e immutabile condizione dell’essere predisposta, nella sua fissità d’intenti, a metabolizzare ogni metamorfosi, ogni movimento, ogni evoluzione. È nella “statica mobilità” (come io la definisco) il segreto che sostiene e poi eleva l’opera di questo nostro ‘estatico e distaccato affine elettivo’, con il quale molto ho condiviso e ancora condividerò.

Prendere il porco per il piede, 2001

Marco Sangiorgi

“Par sant Andrè (30 novembre)u s’ciapa e’ porch pr e’ pè”.
detto Popolare

Vi sono fantasie che nascono per distrazione e si depositano nel nostro profondo, in attesa. si ripresentano di nuovo, senza preavviso, quando la mente è meno vigile e l’occhio stanco prende riposo. Vi sono sogni da cui non ci svegliamo mai del tutto, che ci portiamo dentro come parte di quel poco di avventura che ci è concesso in vita. Nel sogno sono un ragazzo, secco, scarmigliato, scalzo e cencioso. Mi muovo in una boscaglia fitta, che lascia trasparire solo a tratti, tra il fogliame, il sole meridiano. Un po’ corro un po’ mi fermo, acquattato dietro agli alberi; gioco e sono serio, eccitato e diffidente, ogni anfratto e ogni ombra può nascondere qualcosa, uno spavento, un orrore o una scoperta curiosa. Sono ardito e subito timoroso, conosco i sentieri e quando non li conosco me li invento. Nessuno è nel bosco, eppure sento attorno presenze furtive, schiocchi di rami, fruscii e rumori; quando li avverto dietro di me, accelero il passo, cambio direzione. Per questo, correndo con la testa voltata di spalle, non mi accorgo subito della loro presenza; se non mi fermo in tempo gli vado a sbattere addosso.

Mi ritraggo al riparo di un tronco e li osservo: sono magri e lanuginosi, in piccolo branco, mi impressiona il loro grufolare frenetico, la foga con cui smuovono, raschiano, annusano, col muso a terra. così allo stato brado fanno paura, sono aggressivi, sfrontati; ma per me il porco si comincia a conoscerlo solo quando si compie il suo destino di bestia: quando, trascinato per le zampe, sente la morte e piange e urla come un bambino. Allora è festa grande per tutti e noi più piccoli stiamo a guardare rapiti ed estasiati l’agitarsi a scatti del corpo appeso, poi finalmente il coltello lo apre in gola, lasciandolo svenare fino all’ultima goccia. E dopo, il fuoco e l’acqua bollente, il rito dello smembramento, l’odore delle interiora e del lardo, il gusto dolciastro che si spande, gli umori invernali, tutto il cruento teatro giocoso di quella scena. L’ho ancora negli occhi quando si accorgono di me e mi puntano minacciosi, allora comincio a scappare e non bado più a nulla, solo al suono del mio fiato spezzato, ai colpi sordi dei miei passi in corsa. Grugnisco come loro grugniscono, sempre dietro, spronati dal mio affanno, finché mi infilo dove la vegetazione è più fitta, ne esco graffiato e scorticato, ancora più lacero negli stracci che indosso, ma ormai fuori portata, finalmente salvo.

Mi volto e li sbeffeggio, felice, ma ancora corro, corro, e corro…
Il momento panico è salvifico, preserva dalla distruzione, allontana l’alito della morte senza esorcizzarla, riattiva le passioni, gli istinti primordiali, selvatici e naturali, il pulsare del sangue nelle vene, o, come distinguevano gli antichi, lo spirito vitale (pneuma) nelle arterie. Quello stesso essere che si sottrae al pericolo con la fuga, non è per questo maggiormente portato a indulgenza quando si tratta di versare sangue altrui, soprattutto se in contesto rituale: così va percepita, nella secolare cultura contadina occidentale, la gioiosa festa crudele della macellazione suina, non più ri- volta alle divinità, ma al soddisfacimento dell’insaziabile fame umana. a soccorrerci, ancora una volta, interviene il pensiero mitico: ovidio deprecava l’abbandono di quell’età “d’altri tempi, chiamata dell’oro” quando l’umanità “contenta visse dei frutti e dell’erbe che suole produrre la terra” e non “si macchiò la bocca di sangue. (…) Ma dopo che un uomo dannoso, qual che si fosse, (…) nel ventre
avido carni ingoiò, si dischiuse la strada ai delitti. (…) e si crede che vittima prima si meritasse la morte il maiale, perché con il grifo torto strappava sementi togliendo la speme dell’anno” (Ovidio, Metamorphoses Xv 96 – 113). Questa offesa a Demetra, la dea della fecondità, ha condannato il maiale alla sua sorte alimentare.
“una vita dove gli dei non sono invitati non vale la pena di essere vissuta. sarà più tranquilla, ma senza storia”.

Roberto Calasso, le nozze di cadmio e armonia,
Mi, adelphi, 1988, p. 433
Non da oggi, Sergio Monari è impegnato nella riflessione sul mito. In verità, tutto il suo percorso creativo ne è fortemente condizionato, come un bagno alla fonte dell’origine, sin dalla lontana mostra “I volti del tempo” (lugo 1981) che lo fece conoscere, insieme ai suoi sodali Guidi e Scardovi. La sua maturità non è dimentica dei furori e delle dissipazioni della giovinezza, ma si è rieducato a temperarli, rimodellandoli secondo una più meditata valutazione dell’importanza delle cose. Guberti lo ha chiamato disincanto.

Guardingo nei confronti della temporalità storica in cui si trova a vivere, generoso e signorile nell’amicale convivialità, riversa temperamento e passione nell’operare artistico. Il suo lavoro di questi anni, che a Cotignola si espone, testimonia una tensione che si trasmette naturalmente all’osservatore, e non si può eludere. Portatore di scomode verità, può urticare chi si vorrebbe pacificato con se stesso e col mondo. nella stanza dei ferri, una materia dura, solida, rigida, si protende e si congiunge con la fragilità sospesa di elementi sonanti di vibratile sensibilità. ricorda arie pascoliane, quei “finissimi sistri d’argento / (tintinni a invisibili porte / che forse non s’aprono più?…)”. Qui culti misterici egizi in onore di Iside, richiamati dal poeta, evocanti la resurrezione dopo la morte, non sembrano fuori luogo in un contesto come questo, in cui Monari sembra interrogarsi sulla caducità dei viventi, sulla transitorietà dei loro affanni e costruzioni. lo sguardo dell’osservatore si ferma su un seme bronzeo da cui nascono esili rami a sorreggere bicchierini di vetro, si sposta su una struttura dove il metallo ha assunto volto umano in una forma di arcaica punta di freccia, di primitiva selce, passa alle tartarughe e i loro fardelli, al bastone da patriarca usato dai pastori nella transumanza, fino alla rugginosa struttura marrone a cui è appoggiata una vegetazione secca, o una di quelle fascine una volta utilizzate per togliere la cotenna.

Qui il tempo, come nel mondo contadino, torna ad essere ciclico, non lineare. si ripristina la ritualità del ritorno, in forme nuove, del già conosciuto, già vissuto dalle generazioni che si danno il cambio. Il nuovo porta con sé il vecchio, e lo rigenera. nella seconda sala, in una vetusta dondolante culla dove le donne in campagna raccoglievano il sangue del maiale, riempita di vino rosso, galleggia una piccola imbarcazione: la nascita a cui si rimanda e il fluido vitale che è nutrimento, danno corpo e sostanza alla metafora dell’esistenza intesa come temerario navigare. oltre, si vede una più grossa barca a strisce ferree, riempita del sale che conserva le carni e asciuga gli umori, da cui emerge una testa dell’animale; più oltre, un barile di rame contiene un’altra testa, in legno, posata anch’essa in un letto di sale. Infine, poste alla base di riquadri composti a lamelle di rame intrecciato, su cui le ere hanno posato una patina d’ossidazione, vediamo una testa recisa dalla mano del norcino, residuo di beccheria, in uno, e nell’altro, alcuni amputati zampetti a formare una grottesca croce, da cui l’artista, preso da tentazione divinatoria, sembra voler ricavare pronostici e strologherie sul futuro.

“la cucina riflette il senso della morte, il rapporto che l’uomo ha col destino del suo corpo”.
Piero Camporesi, la carne impassibile,
Mi, Il saggiatore, 1983, p. 24

Nel cristianesimo, è il dio stesso che si sostituisce all’animale nel sacrificio rituale: nel sacramento dell’eucarestia, il cristiano mangia il corpo del signore e ne beve il sangue (transustanziazione del pane e vino). Nel mondo greco antico, dopo il sacrificio cruento dell’animale, l’atto di mangiare carne sanciva la distanza e la differenza tra gli dei e gli uomini: ai primi erano dedicati gli aromi e i fumi ottenuti bruciando parti del corpo animale immolato i secondi consumavano le restanti membra, nutrendosene. Gli uomini, dunque, esseri di carne, si cibano di altrettanta morta carne e sono perciò destinati, in ultimo, al decesso e alla putrefazione della materia. Gli dei, invece, non muoiono, poiché si nutrono di essenze, di profumi, di sostanze gassose e volatili, di puro spirito, quindi non si deteriorano (M. Detienne, J.P. Vernant). e del resto, “morire è un male. così pensano gli dei: altrimenti morrebbero anche loro” (Saffo, frammento 170).

Nella terza sala, Sergio Monari invita gli spettatori ad un banchetto, offrendo insaccati, fegatelli, budelli, teste di porco, un’intera porchetta… È l’apoteosi: quello che il percorso già svolto presuppone, qui si attua, e le divinità esiliate ancora una volta ascolteranno il suono e il digrignare delle nostre mascelle, l’azione dei canini, e il bubbolio della temporanea soddisfazione degli stomaci mai sazi. si compie così il nostro destino mortale, carne alla carne.

Orante, 2003

Abito Orti, Giovanni Scardovi

C’è una attitudine fortemente spettacolare che caratterizza le ultime tendenze dell’arte, una spettacolarità che abbandonando l’oggetto, quadro o scultura, produce “eventi sospesi” nella immobilità sovrana dell’opera. L’operare assume così, il senso di accadimento dell’immagine e della forma, fuori dal luogo del quadro e della scultura o prescindendo da questi, il fare arte diviene così accadimento spaesante della solida fisicità delle cose, “presenza sospesa”, nelle nascoste evidenze del senso. L’immaginario del nostro tempo, più che evidenziare, sembra infatti alludere ed evocare, cimentandosi in una pluralità d’associazioni e dissociazioni della forme e degli oggetti e in un montaggio e smontaggio del senso. anche la scultura di Monari tra costruzione e decostruzione, ricompone l’identità del senso, al punto che più che di scultura mi sentirei di parlare per la sua opera di “eventi plastici”. Gli affiancamenti compositivo-oggettuali a differenza di ciò che accadeva nella produzione precedente tendono allo spettatore una trama complessa di associazioni, spesso ambigue, come accade per questo: “porci s-comodi porci”, allusivo di un banchetto sacrificale e parte integrante della forte conversione al sacro della sua scultura recente. È infatti una tendenza alla sacralità, che sembra caratterizzare l’opera dell’artista.
Da “simulacri imperfetti” la mostra realizzata alla fine degli anni ottanta, la scultura di Monari sembra evolversi da una “iconica sacralità” di forme compatte e monolitiche, ad una serie di accostamenti ritualmente stranianti. Nelle opere della mostra del 2000 “riti di passaggio”, dal simulacro passiamo infatti ad una ritualizzazione evocante e lirica, quale “decreto del tempo” dove su una sorta di enorme cratere parietale, ricoperto dal sedimentarsi di una ruggine sottile e diffusa, è stato deposto un mazzo di fiori secchi, che nel disabitato vuoto circolare evoca la solitudine di una apparizione, analoga a quella presente in “Pensando pioppi” e “devote foglie”, entrambe forme abitate da rami e bacche rinsecchite dal tempo. Un sentimento d’assenza, d’abbandono e straniamento, pervade queste forme, in cui il depositarsi di elementi vegetali, appare come l’esito di un anonimo gesto, compiuto, in una memoria senza tempo. nelle ultime opere, Monari continua a percorrere il senso mistico di questo sacrale spaesamento, accostando sempre elementi che ci comunicano, una dimensione profonda di abbandono religioso e monastico come questo: “orante abito orti”, in cui una verga pastorale si appoggia all’intreccio di lamiere ossidate dal tempo e ancora in “ripetuto enigma”, dove una testa di porco riposa sullo sfondo di un quadro intrecciato in verde rame. Monari inscena negli ultimi lavori, una parodia liturgica a tratti sconcertante, perché ritualmente sacrale, ma esente dall’evocazione della divinità. L’immagine iconica viene smontata nei suoi significati e ricomposta sulla base di una sacralità che annuncia più la lirica ironia di un mistico disincanto, che il rimando ad una fede. Osservare questo “naufragar m’è dolce”, dove un esile scafo galleggiante dentro un’antica culla colma di vino induce il pensiero, alla possibilità di una naufragio, creato dall’oscillare ondoso di una ninna nanna. Come si può cogliere l’artista opera su una base metonimica una riproposizione carica di rimandi leopardiano-dionisiaci. Ma da dove viene questa mistica religiosità? Se appaiono tutte le liturgie e i riti della credenza, senza esserci il “credo”. Penso che in Monari la religione dell’opera sia quella dell’ascolto di un mistico che sente, il suo essere parte di un tutto cosmico, ma che con Cioran afferma:
“sono un mistico perché non credo in niente”.

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