1990-1995 Breviario dell’ombra

1997

Rosita Copioli

La versatilità, così sorprendente, di Sergio Monari, non sembra indirizzata alla ricerca di forme autonome, se non in quanto esse sono la soglia di un rapporto complesso, per molti versi insondabile, con la materia, e con il lato di pensiero, il senso profondo, l’orientamento che la materia sembra possedere sempre, quando ne consideriamo la duttilità o l’opacità, il suo aprirsi o il suo resistere a ogni svelamento. Cercherò di chiarire ciò che intendo. Per esempio, a differenza di uno scultore come Igor Mitoraj – che dopo di lui, nei primi ottanta, ha iniziato a raffigurare torsi, volti, lacerti di figure antiche, ferite, fasciate, ma insegue il sentimento della “forma bella”, congelato in una nostalgia luttuosa – Monari insegue il mutamento delle possibilità della forma. Da un lato è attratto dai corpi perfetti che la natura ha generato e che la storia ha rivestito di segni: quei nudi ai quali greci hanno conferito l’aura del loro mondo, il riconoscimento perenne della luce piena su misura e limite. Dall’altro, una tensione insieme arcaica e moderna lo spinge a cercarne i risvolti scagliosi, le origini ancestrali, e a interpretare la loro complessiva configurazione nel mondo dell’arte contemporanea, come farebbe un decodificatore di miti novecentesco.

Nello stesso istante in cui l’immagine della tradizione aurea dell’occidente compare all’attenzione di Monari, ecco che essa è anche ricollocata o dislocata: viene mutilata o fatta fruttificare in brevi metamorfosi che sono arboree o di scorrimento acqueo; viene interrotta da inserti marmorei e graffiti di lapislazzulo nella terracotta; viene insidiata da piume di vetro tagliente, mentre il marmo e il bronzo accolgono la violenza delle lastre di vetro, e di vitrei getti e grumi sanguigni non ancora del tutto coagulati nel collo di una bella testa adagiata. La luce dell’igle, lo splendore apollineo della forma unica e distinta, non può, non deve riverberare a lungo nelle statue di Monari. E’ lontana da quei corpi ora distesi, ora chini, ora eretti, ora atteggiati in posture teatrali che sembrano citare altri gesti. Non tocca profondamente quegli esseri dove il volto ha una parte che non saprei definire, se oscura o come in secondo piano, e il cui fascino, probabilmente, sta nella parte d’ombra. Qui non c’è né la nostalgia mortale, la passione neoclassica che adombra ogni levigato frammento di Mitoraj, né il ritorno della luce greca, la luce ferma che ritagliava le cose nella conoscenza esatta del limite.
Piuttosto, inseguendo una strada di miti spezzati, riflettendosi nei miti moltiplicati dallo specchio del moderno, Monari ne reinventa delle sue icone memorabili. Penso all’Ercole che arrotola il cartiglio delle sue fatiche (ora smembrato, purtroppo), o al Minotauro, che galleggia alto sulla base di un cono bianco rovesciato, come un insetto, o come bottom addormentato nella sua isola.

Quasi parallelamente ai greci, Monari visita le civiltà ancestrali: in senso lato, ma anche in senso specifico e particolare, concretizza una poetica degli oggetti che ingloba manufatti estraniati da tutto e domestici enigmi: troni e sedili come di tronchi africani, rastrelliere e pettini di praterie; totem e mani e scale e puntaspilli rovesciati e rastrelli: oggetti senza memoria e di nuova memoria: le invenzioni di quell’ immenso deposito craquelé, che è ogni proiezione contemporanea compiuta sulle suggestioni di radici remote. In queste manifestazioni plastiche, viene a poco a poco raccontato un progetto intellettuale. Un disegno ha investito la materia e Monari se ne sente investito. Le parole con cui egli commenta, spiega e definisce le proprie opere, possono intendersi come la legittimazione di un ordine che si è rivelato necessario. L’ordine è appena scaturito dal rap- porto con il mezzo plastico trasformato e con il mondo; ma il mondo è mutevole, sempre refrattario anche alle trasformazioni luminose che le grandi tradizioni ci hanno consegnato: l’ordine dunque si mette in discussione e si ricodifica senza sosta.

Sebbene le arti delle avanguardie e gli sperimentalismi ci abbiano abituato ai titoli concettuali, agli incroci dei generi e dei messaggi dell’arte, di fronte alle opere di Monari, non sarà illegittimo chiederci: perché questo bisogno di parola, per una necessità della materia? Perché questo accoppiamento di pensiero espresso nella lingua, con il pensiero rappresentato plasticamente? Quanto appartiene soltanto ai nostri anni, dove niente sembra colmi il bisogno di rappresentare, con i più puri mezzi intellettuali, l’idea concretizzata nell’opera? Perché verbalizzare la so- stanza dell’arte? Ognuno risponderà a suo modo per questa volontà costante di render conto d’ogni invenzione, d’ogni forma, d’ogni evento delle opere odierne. E Monari avrà la più giusta e pertinente delle risposte. Dal mio canto, nel caso suo, osservo che questa tendenza propria del gusto contemporaneo, corrisponde perfettamente con la sua personale, nativa tendenza all’intersecazione, alla commistione dei mezzi. La ricerca di una tessitura di combinazioni sottili e intense, nella mediazione dei materiali e delle tecniche, percorre tutta l’opera di Monari, fino alle ultime pitture. Nel 1992 una serie di oli, su tela e su rame, intitolata Finzioni ideali, inaugurava la novità di paesaggi in senso stretto, e di paesaggi di luoghi liminari tra visione esterna ed interna. Quasi tutti gli oli raffiguravano alberi con le forme slanciate dei cipressi o dei pioppi, su sfondi di luce. Prospettive come quinte per fare emergere il fondale della luce, dove, almeno a me così sembra, l’impalpabile nube lucente sale dal fondo del quadro, come una fonte autonoma, cui sia stato attutito il bagliore folgorante: una qualità di nube madreperlacea, soffusa, irradiante, che è passata attraverso la lezione indimenticabile di Turner. Oggi, altre tre serie di diversa sperimentazione testimoniano l’avventura in corso di Monari, questo suo amore della materia lavoratissima, che impreziosisce e si arricchisce.

La prima serie è dedicata ai classici più amati della scultura occidentale, dall’antichità a Canova. Su lastre di piombo spalmate di colori assoluti, giallo oro, rosso di cadmio, blu di Prussia, che riverberano opachi, come drappi di tessuto, si dispiegano gli omaggi alle sculture famose, si distende un sogno dove c’è sempre, palpabile, l’idea di sfondare il quadro, di farne anche un’altra cosa: tradurlo in un’altra realtà, intensificarne la composizione, ritraendola come potesse mantenere il suo rilievo originario, o addensandola: come soltanto il piombo, il cupo piombo di Saturno, con le sue negrogrigie pieghe, può addensare e concentrare dentro la sua pesantezza calamitante. Su lastre nere di ferro, invece, bicromie di figure umane e animali, conservano qualcosa dell’espressionismo, ma possiedono un’eleganza giapponese, una misura cromatica solida e insieme leggera, spoglia. Strutture dal peso equilibrato, linee robuste essenziali, il tocco e l’emblema della sobrietà. Infine, con un lavoro levigato e fiammato, fondi di rame e grandi sfumati neri, delle testine tracciate nei lineamenti salienti, ora con il giallo, ora con il rosso, vengono fuori da luoghi magici, simili ad apparizioni fantasmatiche, della realtà dei sogni. Non sarebbero luminose le fiamme, tanto lucido il nero, tanto squillanti il giallo e il rosso di queste tri o quadricromie, se la sontuosa, fulva pellicola del rame non prestasse il suo nobile e levigato specchio alle pennellate fiammanti che scivolano come seta.

Così piombo, ferro, rame, in una scala alchemica continuano a fondare i gradini dell’esperienza artistica e materica di Monari. Con una mente artigianale, pratica, precisa, attenta ai tesori segreti che gli elementi e le loro trasformazioni serbano per chi sa scoprirli, Monari ha trasportato la sua pittura nella consistenza della materia assottigliata, resa fine per trarre alla superficie il pensiero che vi è inscritto: la possibilità luminosa delle forme della mente che si cela nell’opaca, inerte Materia Mater di cui è fatto tutto.

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