1996-2000 Riti di passaggio

Giulio Guberti, Giancarlo Papi

 

Sergio Monari, un’ispirazione vagabonda, 2000

Giulio Guberti

Non credo di andare molto lontano dal vero affermando che la predisposizione di base, attualmente, di Sergio Monari, sia il disincanto. Non solo nel senso letterale di assenza di illusioni o di consapevole rinuncia alle illusioni, ma in quanto artista avvertito di vivere l’età o, se vogliamo, l’epoca del disincanto. Ciò ha, in genere, implicazioni sociologiche ma, nel caso di Monari, principalmente psicologiche. Lasciamo stare la caduta delle cosiddette ideologie, fenomeno sopravvalutato che, in ogni caso, l’ha forse appena sfiorato. Lasciamo da parte la delusione dell’artista di vivere in un mondo che ha ampiamente dimostrato di poterne fare a meno; al di là delle aste miliardarie per qualche opera di Van Gogh, ridotta a status simbol: durante tutta la vita, l’artista vendette un unico quadro. Lasciamo perdere anche il mal di vivere che ha pervaso tanta poesia e arte del novecento da Pessoa a Montale alle esacerbazioni di bacon. Né, credo, il disincanto sia una nuova forma dell’antico scetticismo, un neoscetticismo per dirla con linguaggio avanguardista: l’atteggiamento di un presunto uomo saggio cheda una parte approda all’aphasia e dall’altra all’ataraxia; una sorta di contemplazione più o meno mistica come in certi comportamenti New age. E neppure abbia a che fare con la frustrazione che comporta una fuga dal mondo e, nello stesso tempo, un aumento generale di motivazioni, come già aveva rilevato Freud. Potrei continuare per esclusioni accentuando il versante dell’assenza o dei senza direbbe Alberto Arbasino. Sono convinto che, sul piano personale, tutto ciò ed altro, appartenga, se mai, il passato di Monari.

Disincanto di Monari è diventato qualcosa di molto più sottile, quasi impalpabile, che ormai fa parte del suo comportamento e, in parte, si trasmette al suo operare artistico. Egli ha smesso di agitarsi, di sgomitare: ha un suo curriculum rilevante, ha partecipato a mostre importanti in buone gallerie private e pubbliche, alcuni dei suoi esegeti appartengono al gotha della critica: avrebbe potuto continuare a correre come i cavalli nell’ippodromo per raggiungere un traguardo dopo l’altro, per farcela, come usa dire. E, invece, ha desistito. Una volta risolto il primum vivere, anche in rapporto all’insegnamento presso l’accademia di Bologna, si è ritirato in una bella casa in collina, tra splenditi vigneti, ha attrezzato lo studio nel vecchio fienile e qui lavora quando ne ha voglia, corteggiando i suoi fantasmi, ma lentamente: rendendo quotidiano omaggio alla lentezza, come direbbe Milan Kundera. In un ambito, quello della scultura che, almeno fino a poco tempo fa, era la cenerentola delle arti, se i riferimenti sono quelli del mercato e del cosiddetto successo. Su tali argomenti ha abbassato saracinesche a tenuta stagna: coi rari amici parla di cibo e di vini o, meglio, lascia parlare e più spesso ride all’occasione. Si direbbe che abbia accettato di appartenere ai cosiddetti artisti “locali”, come altri della sua generazione: locali sia pure in senso nobile, non localistico, che aborre. Qualcosa di paragonabile allo straordinario formaggio di fossa che, spesso, adorna la sua tavola.

Ma non è così o, forse, non è soltanto così. Le cose sono sempre più complicate di quanto si crede. accetta anche di fare qualche mostra, se capita, se glielo chiedono, ma anche qui con nonchalance; non è aprioristicamente contrario a mostrasi, ma senza ansie, senza aspettative che non siano quelle gradite dei complimenti di chi stima e di coloro coi quali ha rapporti veri di amicizia. Se dovesse capitargli qualcosa in più, la buona recensione, i complimenti di qualcuno “che conta”, la vendita di qualche opera, sarebbe come un fortunato colpo di dadi. Che convaliderebbe il suo quieto fatalismo. Artista locale, ma con una visione cosmopolita, da cittadino del mondo. Niente a che fare con la cucina “internazionale” dell’arte. L’arte ha raggiunto il cosmopolitismo ben prima che l’economia raggiungesse la cosiddetta globalizzazione. Si è detto all’inizio: consapevole di vivere l’epoca del disincanto. Che è poi l’epoca del nichilismo come si è venuto configurando nel pensiero di Stirner, di Nietzsche, di Heidegger, di Derrida, dei filosofi dalla “famiglia” ermeneutica. Un nichilismo non soltanto negativo e distruttivo, ma anche positivo e costruttivo. Un nichilismo da oltrepassare, ma mai completamente oltrepassato. Un’aspirazione irraggiungibile, proprio come l’oltrepassamento della metafisica. Credo che Monari abbia tutto il tempo per leggere, per ascoltare musica, per meditare: per essere, in buone sostanza, un contemporaneo dal- l’epoca che viviamo. Un locale cosmopolita è un’aporia irrisolvibile con la pura logica, e tuttavia presente nella cronaca e nella storia del nostro tempo, come l’unicorno era presente nella cronaca e nella storia dell’arte del rinascimento: strane figure di strani animali che pascolano nelle nostre coscienze.

Monari ha così imparato che si può fare a meno di molte cose: del cosiddetto sistema dell’arte, dello stile che aspira alla riconoscibilità dell’autore, del metodo che ha a che fare maggiormente con la coscienza e con la tecnica (i libertari, dirà Paul K. Feyerabend, sono “contro il metodo”), di certe pesantezze che qualcuno dei suoi esegeti ha chiamato, non so con quanta convinzione, neoclassiche. Se proprio dovesse trattarsi di classicismo non potrebbe essere disgiunto dal frammento, dominus di tanta arte moderna e contemporanea. Che Franco Fortini, per ragioni intrinseche, chiamava espressionista. Credo, quindi, si sia liberato, in parte, del suo passato, così come del suo vissuto, selezionando il meglio, o ciò che crede tale. Però non parlerei di “leggerezza”. Calvino e Kundera ne scrissero molti anni fa e non potevano sapere che sarebbe diventata sinonimo di brevità, di improvvisazione, di mancanza di approfondimento. L’industria culturale l’ha fatta diventare un mostriciattolo da tirare come un elastico da tutte le parti. Se si dovesse parlare di “leggerezza”, credo bisognerebbe accompagnarla con “gioia” (almeno alcune volte), e se quest’ultima parola dovesse ricordare troppo Matisse, con Magia. Magica leggerezza infatti. L’arte d’avanguardia, come si sa, aveva cercato di liberarsi anche di ciò che un tempo veniva chiamato il “contenuto”, per aspirare al puro significante: significante scisso dal significato, nelle aspirazioni di quegli artisti, forse voleva dire senza mimesi, senza referenti, senza sociale, senza tempo geografico e spazio lineare (inversione voluta), senza laccioli di nessun tipo. anche questo faceva parte di un certo nichilismo. Ora siamo liberi anche dall’avanguardia. Direi che Monari, più che cercare, trova un’ispirazione vagabonda, forse gli arriva dal cielo, come la manna nel deserto. Il compito del critico è quasi sempre crudele: egli non può fare a meno dell’acribia che per fortuna rimane nel testo scritto e non si aggroviglia all’opera dell’artista. Orbene, i significanti di Monari stanno trovando i loro significati: direi quindi che si pone in essere un diverso equilibrio. Il compito del critico è quello di enumerarli noiosamente: come spesso si è detto, può darsi che la filologia uccida la poesia. Molto probabilmente uccide la voglia di poesia. ad ogni modo non si è scritto la parola “poesia” a caso: l’ispirazione di Monari è un’ispirazione poetica che trova sculture invece di parole. Vagabonda perché salta di palo in frasca senza stare lì, a soppesare troppo, il prima e il dopo.

“Mancanza di cronologia” che è un segno contro l’apocalisse del nostro tempo: infatti, se fossi in Monari, mi rifiuterei di mettere la data di esecuzione delle opere. In mostra sono esposte opere degli ultimi due anni, ma non è necessario saperlo. Qui siamo fuori dalla storia, fuori dal tempo, fuori dall’avanguardia. Omaggio alla lentezza, abbiamo detto, e questa vive fuori dall’accelerazione storica che è una specie di fuga dalle idee. Lentezza che vive in antagonismo a quest’ultima. Un modo libertario di “starsene fuori”, di contrastare la violenza della cosiddetta storia, di essere antagonisti.

L’artista è sempre un po’ anarchico e un po’ aristocratico: ana-cronistico. Anche la Tate Modern di Londra l’ha capito, disponendo le opere del museo senza tenere conto della cronologia. “Pensando pioppi” è uno strano totem, una scultura in legno che richiama da una parte un capitello barbarico rovesciato e dall’altro quella di una clessidra scanellata sulla quale sono deposte aste e frecce anch’esse in legno di pioppo. Il corpo della scultura, le aste e le frecce sono ricoperte di polvere di ferro che le mostra antiche e rugginose. Il tutto è posto sopra quattro tartarughe situate ai margini, formate da tanti piccoli frammenti di vetro, quasi dei mosaici. Si può pensare, non obbligatoriamente, a un’aggressività d’altri tempi, indebolita, trascinata lentamente verso un destino ignoto: un riconoscimento ad un nobile fare lento, un piccolo monumento ad antiche guerre nate dall’inconscio. Si può pensare a una catarsi ancora irrisolta. “Esiliati calici” si presenta con un corpo irregolare di ferro su cui sono impiantate forme d’arbusti in bronzo sulle cui cime sono posti sottili bicchieri di vetro trasparente. Ricordano le protezioni, poste in atto dai contadini, alle gemme delle piante da frutto, contro le gelate. Qui viene giocato il contrasto tra il verderame degli arbusti (il colore dell’antico solfato) e i calici trasparenti come campanelle di guardia, in attesa.

“Prometti vino” è una serie di sculture formate da basi in acciaio su cui si ergono, incurvati, steli di alluminio con in cima sottili bottiglie di vetro color vinaccia. Toccandoli gli steli si muovono tessendo immaginarie armonie musicali. Potrebbero ricordare, con l’acribia che si è detto, da una parte lo Scolabottiglie di Duchamp e dall’altra i Mobiles di Calder, ma l’originalità dell’opera è tutta posta su quel prometti vino del titolo, promessa che, si immagina, verrà mantenuta. altre sculture sono modelli che attendono di ingrandire e, infatti, l’autore mette, come suol dirsi, le mani avanti: dimensioni variabili è la loro misura. “Destinato alla luce” è una struttura in ferro rossastro di ruggine che simula un basso candelabro con due bracci orizzontali e due bocciuoli sui quali non saranno mai poste candele. Dunque, un destino impossibile.
“Lucida soglia”, anch’essa in ferro ossidato, si presenta come una specchiera senza specchio nella quale ognuno “può vedere” il proprio vuoto. Quindi pluralità di motivi e di forme: già la molteplicità dei materiali (indietro nel tempo: terre crude, terrecotte, tele fissate in varie forme di ondulazioni, ecc.) ci racconta di estrosità e fantasia, ma anche il non volersi mummificare in uno stile-trappola, un po’ griffe, un po’ monumento a se stesso, un po’ bara. Inoltre i titoli delle opere mi sembrano straordinariamente ironici: a volte poetici, a volte gioiosi, a volte più cupi, ma sempre ironici. L’ironia morde, gioca sempre contro qualcosa, come giustamente afferma Richard Rorty. Nel caso di Monari, gioca contro se stesso, contro il sistema dell’arte, contro l’impossibile, contro il vuoto, contro la rappresentazione, ecc. ad ogni modo pare che in modo diretto o indiretto, il bersaglio ironico di Monari sia prevalentemente se stesso e la sua proiezione esterna. Renato Serra che è stato un grande esegeta e un grande romagnolo, lasciava intendere che l’arte (come, mutatis mutandis, anche la critica) era un modo , forse il più nobile, di raccontarsi. Aggiungerei: di raccontarsi nascondendosi. Avviandomi verso la fine, devo fare alcune precisazioni o, forse, autocritiche. Credo di aver dato, all’inizio di questo testo, una visione troppo pacificata di Monari. L’interpretazione delle opere comporta abbastanza spesso una diversa interpretazione dell’autore. Ora alla luce delle opere qui raccontate e di altre che si vedranno in mostra, mi sembra di dover apportare una qualche modifica o, per lo meno, qualche precisazione. C’è una sottile inquietudine in quel comportamento che vorrebbe apparire neutrale, al di sopra delle parti, pertinace. Monari deve possedere un discreto autocontrollo. Credo si possa terminare con Montale:
La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare…
Il corsivo é mio. Del resto che può fare un artista, oggi? Se non ingannare a volte l’occhio, a volte se stesso, a volte il buonsenso, a volte i suoi turbamenti, ecc.? Che può fare, se non fingere di fraintendere? (la téchne del fraintendimento creativo, gli anglosassoni la chiamano misreading), con l’ironia che trabocca e fa male al cuore? E la poesia da nascondere, per pudore, tra i segni e le parole? Eppure quest’arte che si voleva distaccata da tutto (che il novecento e la tarda modernità volevano staccata da tutto), continua ad essere, nonostante la volontà di impotenza degli artisti, una cartina di tornasole del malessere generale che serpeggia in ogni fibra di questo mondo globalizzato ma, anche per questo, stupidamente offeso.

Riti di passaggio, 2000

Giancarlo Papi

Da tempo Sergio Monari lavora attorno a un unico, inesauribile tema: il costruire, il comporre, il definire una forma. Ciò che gli interessa, però, non sono le operazioni edificatorie, ma i procedimenti riflessivi. Non i progetti definiti della razionalità, ma i movimenti inquieti della ragione. In realtà Monari, con le sue opere, cerca di rendere percepibile quella vasta area fatta di osservazioni e intuizioni, collegamenti e memorie, che precede ogni progetto e lo segue.

Sono costruzioni che si pongono nello spazio della prossimità, della vicinanza a ciò che è concreto. Si discostano dall’oggetto in sé, inserendosi invece nei fenomeni che lo determinano e lo circondano. Questa presa di distanza a quanto si pone come definitivo, indica come l’interesse dominante sia per tutto quanto, nel pensare e nel fare, rimanga mobile, suscettibile di modificazioni. L’idea della forma è stata sempre perseguita, esibita, affermata da Monari in tutte le sue opere, nella pittura come nella scultura, già a partire dagli esordi. Un’idea però che rinvia continuamente a un senso che la travalica. Le modalità progettuali da cui provengono e di cui sono portatrici non vogliono perpetuare un ordinamento, ma avanzare delle ipotesi, proporre delle possibilità. Non vi sono più vincoli a uno sviluppo determinato, ma l’acquisizione del concetto di complessità e della sua dimensione instabile ma generativa. Monari giunge nelle ultime sculture a dare forma più evidente e manifesta a lavori dal fantasioso sviluppo e liberamente articolati, che rimandano all’artificio e a qualcosa che è in bilico tra passato e futuro. Opere “aperte”, apparentemente fragili, in equilibrio dinamico tra certezza strutturale e frange di precarietà. E’ per via di “assestamento”, con l’osservazione dell’agire su una forma-oggetto che l’artista è arrivato agli attuali risultati, la cui evidenza formale assolve il compito di scardinare la logica preesistente nella nostra coscienza. E’ in questo senso che la semplicità e i singoli elementi che compongono questo linguaggio, isolabili fra loro, si aprono ad un ventaglio estremamente ampio di possibilità. L’osservazione di “ciò che da tempo ci è noto” diviene potenzialmente un paradigma. Il “noto” che si presenta davanti ai nostri occhi è il morfema base di un più ampio sistema la cui grammatica si deposita e si combina di volta in volta nell’esperienza vissuta da queste forme. E’ la stabilità dei nostri dati acquisiti, dei nostri schemi mentali, che presentandosi nella proposizione di una forma schematica, viene ad essere intaccata. La “soluzione” sarà allora implicita al nostro atteggiamento, alla possibilità data a queste forme-oggetto di interagire con il metodo dell’esperienza.
E’ un concetto suggerito da Jacques Derrida, quello del tra: del “travail en train”, del “trait”, della “trajectoire”.

Ebbene le sculture-installazioni di Monari, ideate come un collage dalle molte facce e dalle molte materie, pare proprio dare corpo a questo stadio cerniera, a questo spazio del mezzo. Esse si offrono come un gioco combinatorio di elementi dissociati, dislocati eppure fissati, ricompattati sull’orlo del cadere, del precipitare: vero intervento contro l’”oggetto”, la staticità delle cose, ma anche contro la loro distinzione: autentica costruzione di forme che ci interrogano sul loro essere e sul loro di- venire, sul loro disporsi in un luogo e sul loro disporre il luogo. Così, quella che potrebbe sembrare una presunzione e un’impertinenza nei confronti dell’ambiente, in realtà risulta essere solo una sua attivazione o una sua sottolineatura e quello che potrebbe apparire come un esercizio di acrobazia dell’intero apparato strutturale dell’opera determina più uno slargo dei limiti dell’esperienza che un loro ribaltamento. Lo stesso vale quando interviene la negazione di ogni fisica consistenza o l’impiego di meccanismi illusivi; essi non sono intesi a contraddire l’ordine dello spazio, ma piuttosto a costruire una sorta di “carattere della spazialità”, con tutte le sue condizioni e i suoi stati fisiologici (di sostengo, di tensione, di apertura, ecc.). Qui possono valere le parole di Heidegger, laddove afferma che l’”aperto” lascia “sorgere ogni cosa nel suo riposare in se stesso”. Ogni proposizione plastica cioè esperisce l’idea del volo, dell’estensione, del continuabile, ma senza uscire da sé, dalla propria evidenza. Infatti gli stessi materiali impiegati sono osservati nella loro qualità d’origine anzi, se possibile, essi sono ridotti al massimo di letteralità (il vetro è fragilità, il metallo durezza, e così via).

E l’energia che li muove e li esalta è una scarica interna, una pulsione vitale, per cui quel senso di instabilità e di indeterminatezza che il lavoro di Monari sollecita non è una realtà definitivamente data, ma una istanza sperimentale: è un dubbio, un problema concettuale, un evento in corso, una trasformazione in atto, un trasfert visivo. L’idea che sembra informare tutta la scultura di Sergio Mo- nari è che le cose del mondo sono invariabilmente un mondo di cose (una realtà plurale), e che quindi la loro comprensione è la comprensione dei nessi, dei legami che le fanno entrare nei più svariati insiemi. all’artista non interessa il loro essere, ma il loro divenire, non l’abitualità di cui sono inscritte, bensì l’avvio verso una continua ridefinizione dei loro termini. Ma in questo evento metamorfico (in questo tentativo di generare oggetti da altri oggetti), tutto finisce per significare a due livelli, tutto produce quello che viene chiamato “uno strabico processo conoscitivo”: succede cioè che ogni reperto continui a conservare la memoria del proprio senso primo e che contemporanea- mente sia rivolto verso un altro senso (della propria funzione)a formare degli assemblaggi visionari. L’obiettivo è quello di trascendere ogni ponderalità dell’artefatto, per mostrare una potenza interna, alchemica, una fluidità che abbatte limiti, forme, materie. allora l’occhio non può più fissarsi sull’immagine, ma deve continuare a immaginare, non può più cogliere una struttura (seppure frantumata), ma deve seguire proprio il senso di fissione, di molteplicità che costituisce la struttura stessa. E anche quando le forme non si servono più della leggerezza e della fragilità, quando il loro corpo assume spessore, quando tutte le materie mantengono inalterate le loro proprietà e caratteristiche, ancora (e forse più) si evidenzia un’energia sepolta e insieme proliferante, sconosciuta e in espansione.

Così come oggetti quotidiani, combinati, che hanno subito una operazione di sabbiatura con polvere di ferro, acquistano una opacità strana, una sorta di segretezza ambigua: tutto sembra perdere il proprio nome, anche se non la propria identità. Ogni oggetto è se stesso e anche altro o altra faccia di sé: il visibile e l’invisibile, il familiare e l’ignoto. gioco percettivo e concettuale che trova ulteriore conferma nei lavori esposti in questa mostra il cui senso è riassunto nella presenza simbolica di un’opera: numerose tartarughe di vetro sostengono, distaccandole dal suolo le tensioni plastiche espresse da una strana costruzione. Il loro suggestivo incedere, lento ed inarrestabile, suggerisce un concetto di eternità su cui l’artista coniuga la percezione dello spazio e della memoria con l’idea del flusso temporale.

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