2009-2010 Ierofanie

Angelo Andreotti, Giovanni Scardovi, Luca Cesari

Sergio Monari e La poetica della periferia

Angelo Andreotti 2010

Poiché le civiltà sono qualcosa di “finito”, nella vita di ognuna viene un momento in cui il centro non tiene più. ciò che allora le salva dalla disintegrazione non è la forza delle legioni ma quelle della lingua. così fu per Roma e, prima, per la Grecia ellenica. il compito di “tenere”, allora, ricade sugli uomini delle provincie, della periferia. Contrariamente a quanto si crede di solito, la periferia non è il luogo in cui finisce il mondo – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta. È un fenomeno che riguarda la lingua non meno dell’occhio.
Iosif Brodskij, il suono della Marea
Che la lingua scultorea di Sergio Monari sia quella della tradizione occidentale mediterranea, credo non valga nemmeno la pena di sottolinearlo. Magari invece può avere un senso chiedersi il perché di questa scelta, dal momento in cui – secondo il punto di vista dei processi dell’arte contemporanea – potrebbe sembrare a tutti gli effetti una scelta “perdente” (ma rispetto a cosa?), oltre che difficile da sostenere, e in apparenza giust’appunto inattuale.
Non sarò di certo io a buttare a mare le esperienze del contemporaneo, e tuttavia una buona parte di queste esperienze, più che puntare su una qualche forma di autenticità, sembrano il frutto scontato degli stessi meccanismi che governano il mondo della mercanzia, come se il prodotto “arte” rientrasse spontaneamente nel novero dei cosiddetti “beni di consumo”; oppure, nel migliore dei casi, rischiano di essere il risultato di un ambiente altamente autoreferenziale. Che poi certa arte contemporanea sia la testimonianza di uno stato di crisi, e di povertà estetica nonché culturale della nostra civiltà, penso sia davvero indubitabile (ma anche ricusabile come “giustificazione”), se non altro per la ricerca spasmodica non tanto di “raccontare”, quanto piuttosto di dover sorprendere attraverso una continua (ma ormai consumata e di maniera) ricerca del nuovo. E la cosa oltretutto imbarazzante è che questa ricerca del nuovo non è per nulla nuova, dal momento in cui ha attraversato quasi tutto il secolo scorso (ma con esiti decisamente diversi).

Una ricerca che non può radicare sé stessa da nessuna parte giusto per questa sua naturale necessità di rinnovarsi, necessità questa che sarebbe anche sacrosanta, se non arrivasse di fatto a sostituire la figura dell’artista con qualcosa di molto simile all’art director, e a subordinare la funzione del critico a quella del copy, come se il “sistema arte” fosse diventato più che altro un’agenzia pubblicitaria. gli obiettivi e le modalità di presa sul pubblico spesso risultano identici, del resto.

Per riprendere il senso della citazione di Brodkij riportata in esergo (e che il critico scrisse per quel grande poeta della periferia del mondo che è derek Walcott), essere oggi al centro della nostra civiltà significa assorbirne lo stato di decadenza, e venirne inesorabilmente schiacciati, mentre al contrario vivere la periferia significa trovarsi nella condizione di poter non subire alcun ricatto, o per lo meno non di questo genere.

Stare ai margini del sistema significa in definitiva non essere immersi nel sistema, e perciò avere il tempo, il distacco e la lucidità per la scelta. Ciò che quindi non si può trovare nell’opera di Monari – e proprio in questo diventa uno scultore della tradizione – è appunto l’ossessione del nuovo, se non altro in ambito formale, protesa com’è a salvaguardare anche la sapienza artigianale, che in ultima istanza è quel “saper fare” che soprattutto rende possibile dar corpo all’anima. Tuttavia, se è vero che la sua opera non ha come fine la sorpresa, lo spiazzamente dello spettatore, è altrettanto vero che essa propende ad approfondire la ricerca sulle forme simboliche dell’esistenza.

Così come l’archeologo scava la terra per trovare nuove tracce di antiche civiltà, Monari attraverso la materia si cala nel tempo e in una delle sue forme (la storia) per andare a cercare dove abbiamo iniziato a perderci, cosa è necessario tenere, e perciò continuare a indagare non tanto per raggiungere una quanto mai improbabile risposta che concluda, ma per ricordarci che ciò che troviamo sono appunto soltanto domande, e che queste domande trovano la propria risposta nel restare continuamente aperte. con questo scopo non esita ad attingere a piene mani nel patrimonio iconografico, prediligendo le testimonianze della classicità (sotto forma di archetipi) in contaminazioni all’insegna dell’originario (si veda a titolo di esempio La porta dei tramonti). Poco importa uno scarto di secoli, quando in buona sostanza i grandi quesiti del vivere non sono in fin dei conti mai cambiati, e persistono incuranti del tempo a interrogare e a inquietare l’uomo di sempre e di tutte le latitudini. Così è l’uomo il reale protagonista della sua poetica, così come il grande tema è quello del tempo, una sorta di vero e proprio leitmotiv della sua opera, inteso tuttavia come tempo piegato a cerchio attorno all’uomo e alla sua esistenza. Un tempo che non conosce interruzioni, fratture, cesure, salti, ma soltanto passaggi il cui attraversamento significa cambiamento e sua accettazione. L’opera di Sergio Monari è lo sforzo immane di piegare il tempo lineare di questa nostra accelerata società nel tempo circolare delle origini. Ma si è soggetti a una distorsione “positivista” pensare come aperto il tempo lineare e chiuso quello circolare. in realtà a essere chiuso è proprio il tempo lineare, perché diventa irripetibile e condizionato dalla falsa convinzione del continuo progresso, e perciò dall’ossessione del superamento; mentre aperto è quello circolare, poiché il ritorno a sé stesso non è mai identico, ma a ogni passaggio si rinnova all’insegna del mutamento.

Stando così le cose, allora va da sé che la lingua attraverso la quale Sergio Monari si esprime non poteva non essere che quella della tradizione.

Il mio posto è la soglia

Giovanni Scardovi 2009

“Non sono caduto nel tempo, sono caduto dal tempo”, è questo aforisma di cioran che mi ritorna in mente percorrendo l’opera scultorea di Monari, perché per questo artista il tempo non ha storia ma una lirica dimensione poetica dell’immagine testimoniante l’origine di un mito che si fa logos. non a caso titolo di una sua opera dalla forma ruotante e dentata è Nella mia dimora il tempo non è al sicuro, nella sua scultura infatti la dimensione temporale si dissolve nella sua appartenenza storica in una celebrazione mito-poetica. ripercorrere l’opera scultorea di Monari significa per me ritornare anche ad una affinità decifratoria circa le modalità e il ruolo dell’arte contemporanea e a un disincanto che progressivamente questo scultore nel tempo è venuto acquisendo nei confronti del sistema dell’arte. una sorta di distanza critica che dopo consensi ricevuti per le sue opere, Monari ha manifestato con un suo itinerario creativo avulso dalle logiche del sistema dell’arte.

Del resto occorre sottolineare che il grado di ripulsa che attraversa molti artisti oggi nei confronti del sistema, trova motivi etici ulteriori nell’affermazione di jeff koons “l’arte non consiste nel fare un quadro ma nel venderlo”, affermazione che denuncia le rovine perpetrate da una prostituzione alla confezione mercantilistica che ha invaso l’arte d’oggi, privandola di spessore creativo e di forza espressiva. Monari ha invece perseguito la matrice di un’interiorità, andando a dar forma alla sua pòiesis e disdegnando le sirene dell’estetica che stanno desertificando le visioni del nostro tempo. c’è sempre nella sua scultura, sia nelle forme che nella parte materica che la compone, una limpida contemplazione dell’immagine narrata che prevede un ascolto dove la presenza plastica induce un enigma posturale della forma. in altri lavori più recenti è invece l’enunciato narrante che si fa gesto compiuto come rituale antropologico e sospeso, di reperti immaginari che segnano il passaggio ad una alterità della cui sacralità veniamo a contatto. L’opera di Monari diviene perciò testimonianza di una fanta-antropologia, segreto misterico riconducibile ad una cultura il cui corpo è uscito dall’ombra. esiste in questo scultore una sorta di celebrazione allegorica dell’immagine che dalla mostra I volti del tempo si manifesta attraverso una liturgia compositiva, dotata di una forte ritualità iconica.

La dimensione mitica assume nelle sue opere assetti installativi, proiettando l’immagine plastica in atmosfere in cui la cogliamo immersa in uno spazio di favolistico abbandono. nei Volti del tempo infatti un piccolo minotauro in cotto riposa in posizione fetale sulla base di un cono bianco rovesciato, non c’è labirinto che lo contenga ma un’ostensione che tramuta la terribilità del mostro in piccola figura comunicante tenerezza e abbandono. ancora una piccola figura umana nell’Ultima fatica d’Ercole spinge sul pavimento arrotolando un ipotetico carteggio di formelle in terracotta che partendo dalla parete scende a terra in un percorso di dodici immagini. L’ultima fatica diventa così l’arrotolamento di questa elencazione da parte di un lillipuziano ercole, in un’allegoria parodiante la trasfigurazione del mito. un processo di decostruzione e costruzione che l’artista realizza in una scultura in cui spesso l’opera è accompagnata da titoli fortemente connotati da suggestioni liriche, poetiche ed esistenziali. se inizialmente alcune sculture come i Torsi umani evocavano suggestioni classiche, i lavori della seconda metà degli anni ottanta assumono una forma primaria che accentua il carattere metafisico dell’astrazione diventando apparizione sacrale come accade per Simulacro imperfetto dove la scultura assume l’immagine di monolite segnato da grafemi, o come per Battana votiva in cui una figura di schiena affiorante dall’incavo di uno scafo sta lì incastonata. Sono monoliti scabri e polimaterici di catrame, resina e terra in cui la primarietà della forma aggiunge una nota misterica ad un rituale e solitario abbandono, come accade per Betel e Gli artifici dell’onda che emanano nel loro impatto straniante una potenza dall’essere presenze che ricordano una stele deposta o un arcaico sarcofago. Ma poi come in Preda dell’aria e Il mio posto è la soglia l’interrogativo della forma si sposta su un arcaismo misterico del reperto gestuale, occultato nella densità materica, una transizione verso l’enigma caratterizza questa scultura, anche nella mostra Riti di passaggio, dove in Decreto del tempo l’artista depone nella rotondità di un ampio e rugginoso cratere un mazzo di florescenze essiccate.

Ma la mistica elegiaca continua con Orante abito orti dove un bastone avvolto da un ramo che l’attorciglia si appoggia ad un piano nero verticale, come una specie di solitario caduceo che testimonia un gesto trascorso. a questo punto le sue opere riacquistano presenza umana, con una serie di busti femminili in cotto in cui come accade per Passeri passeggeri osserviamo i prodigi vissuti dalle figure. così un uccello sussurra all’orecchio di una madonna rinascimentale, o in altro caso dove la figura femminile tramuta la coda raccolta dei capelli in una testa di cavallo sospesa alla nuca, mentre in un’altra i capelli si trasformano in un nido d’uccello abbandonato, il tutto in un magico realismo delle figure. direi che è appunto questo senso liturgico dell’immagine a caratterizzare sia nella figura che nell’astrazione le opere di questo artista, che pone il suo linguaggio plastico in un’aura celebrante, eventi lirici dell’esistere. opere accompagnate da titoli fortemente letterari che mi richiamano ad un altro rito di passaggio, quello che Borges in Elogio dell’ombra enuncia in: “io che sono l’è, il fu, il sarà, accondiscendo ancora al linguaggio che è tempo successivo e simbolo”, perché “dalla mia eternità cadono segni”.

Scultura e filosofia

Luca Cesari 2010

Il segno di particolare, forte idealizzazione, cui Sergio Monari sottopone il proprio linguaggio scultoreo, presuppone una identificazione tra scultura e poesia il cui significato non è per niente comune agli usi molteplici che il dizionario odierno ha fatto o non ha fatto dell’ idea di scultura; e soprattutto, in evidente disaccordo con quanto per solito si ascrive alla desinenza Iaocontesca che liquida ogni residua immaginazione ausiliaria all’antica omologia tra arte della parola e arte plastica. Un’implicazione che giustifica tutt’oggi – e non per via di parafrasi – l’angolatura della diversa abilità al disegno e alla pittura che talora esibisce lo scrittore – (nonché alla scultura, se ricordiamo il caso di C. G. Jung). Nel caso di Monari si tratta di un’implicanza non meno esemplare, avvertibile anche all’im pronta, osservando le sculture tonde (e gli oggetti che meritano di essere scrutati come altrettante, straordi narie, figure a tondo) le quali non vanno pensate sotto il segno di una tragica speranza di reagire al non senso, al senza nesso della storia attuale mercè l’intonazione al sublime e una neoantichità appena ironica riconnessa a tutto quel che potrebbe riprodurre un segno archeo logico di Mancanza e insieme di Castigo. Non direi. Al contrario, queste sculture tonde son per me destinate ad assimilare e trasformare l’arte plastica in arte filoso fica nel senso di un profondo portamento alla cerimonialità, che si collega a un passato lontano di parole piene, e che un segreto pedale analogico spinge, dalla privazione del dire, alla formulazione, o all’ingiunzione a tacere quel che nel linguaggio non si può formulare. Ecco, allora, che là dove il pathos e l’ethos fun gono da codice criptato sotto il codice obbligato del linguaggio plastico (ricordiamo in tal senso il magistrale scritto di Moritz sulla Segnatura de bello [1788-89]) fa da ponte al discorso pieno la soggettività del discorso plastico (che sia corpo o cosa), referenziata a un teatro di gesti rarefatti tra il saluto e l’invito ‘in absentia’, espressioni retoriche del corpo da intendersi non tanto e solo quali espressioni di una ‘poiesis’, ma ri congiungimenti a un Logos che trascende, a un soggetto che regna riservato e riottoso entro il dire e affiora dalla segnatura. Un soggetto che aleggia vigoroso e addita, segna, suggerisce, chiama alla presenza insistente dell’identità significante, caratteristicamente semantica, il ‘contenuto’ di queste opere plastiche. Sculture di contenuto? Se facciamo caso, dico solo all’impronta, al carattere non convenzionale ma certamente romantico dei soggetti di Monari, alla scelta di questi soggetti che consistono più o meno in forme mitiche, ma non di memoria, ecco presentarsi nella pro pria importanza, nel proprio fascino preciso, quello che direi un insieme esplicito (quasi per farsi udire) di intonazioni a schemata, com’è uso dire nel linguaggio dell’archeologia. Schemata, su cui ricade il pathos posato e fermo delle immobili (non è pleonasmo) figure a tondo di Monari, fungendo da segnature del portamento retorico, della pregnanza lontana che referenzia un dire, una loquacità muta di estremo interesse declinata in “atteggiamenti”, appunto, iconico-anatomici.

E difatti, guardiamo uno dei primi e più importanti lavori di Monari, L’oblio affligge la memoria [1984]. Esso, nel soporifero e un po’ funesto romanticismo che impone un candore così oscuro e poetico alla postura del giacente, parla a livello dello schema che muove in lui insieme idealizzando il proprio soggetto. Il soggetto-forma, la posa archetipa destinata a disserrare la tensione al dire che resterà aperta nella esemplarità della segnatura, è evidentemente quella dell’Ermafrodito dormiente, nelle varie elaborazioni classiche, neoclassiche, barocche, ecc.

Lo schema, applicato a una statua degli anni ’80, fa risaltare l’omologia tra scultura e poesia, per una suggestione attuale che è di richiamo rituale e cerimoniale (come del resto nelle sculture a tondo di Martini e di Fazzini), e insieme rappresenta il dispositivo espressivo dell’ossessione reincarnata nella frustrazione storica attuale a tacere l’universale privazione della Mancanza e la tangenza o l’abbandono al Castigo tragico per essa.

Lo stesso può esser detto in riferimento a opere plastiche più recenti, ugualmente e sempre in funzione dell’omologia succitata come la tipologia delle Battane che ci porta negli anni 2000; considerando anche la variante della vasca osservabile in Ombrosi odori [2009], ove sotto l’aspetto di storie dissepolte o misteriose equazioni tra giacenti sommersi /emersi, inumati / dissepolti, si fa ritorno a una serie insistente di schermata antichi, ri conducibili a precise iconografie dello spazio divino raffigurato nella mandorla, ecc. E così via, alla ricerca di equivalenze o equipollenze cogenti tra persistenza di segni tra sferiti e scarti evidenti che necessitano l’intenzione verso altre direzioni; come ad esempio l’ipotizza bile nella rivisitazione dello schema di Sota des, Auriga [470 a. c.], il gesto della mano che regge con un atto di alterità inattuale la briglia mutilata e piegata dal tempo da cui prende senso forse l’espressione della mano che regge, con altra piega, un nastro-redine di vero tessuto in Medito sulla tua testa [1996]. Ma non vorrei cedere in questo caso alla probabile autosuggestione. Quello che conta per tutti questi atteggiamenti, moti non moti che pian piano sprofondano nella bipolarità con l’altro codice, è la carica allocutoria, l’affiorare del non detto nella direzione noetica che fa pensare le azioni, cioè confronta pensare e fare in un continuo trovarsi in bilico verso il dire. Circa la perplessità emozionale che si crea su detto margine, forse può risultare interessante puntualizzare l’argo mento di Moritz: “Quando a Filomela fu strappata la lingua, [si riferisce al mito del Libro VI delle Metamorfosi di Ovidio]. ella tessé la storia delle sue sventure in una stoffa che inviò alla sorella la quale, svolgendola, in un terribile silenzio, lesse la orribile narrazione. Quei caratteri muti parlavano a voce più alta dei suoni che scuotono l’orecchio, perché già la semplice esistenza testimoniava l’orrendo misfatto che li aveva causati. La descrizione era divenuta una cosa sola con la cosa descritta, la lingua strappata comunicava attraverso il tessuto parlante (…) Chi vo lesse degnamente rappresentare il dolore di Virginio, dovrebbe sforzarsi, come fa l’attore, per quanto possibile di essere, per qualche istante, lo stessoVirginio (…) rappresentando con compassione il dolore altrui. Op pure dovrebbe fissare, come fa l’artista figurativo, uno di quei momenti fuggevoli che scuotono massimamente l’animo, perché in tutto quel che in essi si rappresenta all’occhio ogni cosa diventa parlante e significante e attra verso l’altra, come il tutto attraverso se stesso”.

Il punto centrale che traccia il movimento significante, è il moto di risalita dai caratteri muti al terribile silenzio della lingua strappata. La segnatura, lo schema che porta a risalire e scendere le espressioni presente mente perdute, si trasfonde attraverso i caratteri, che son muti, ma parlano nella misura in cui significano, nella misura in cui accennano con la loro semplice esistenza al terribile silenzio allocutorio (che parla a voce più alta dei suoni che scuotono l’orecchio).

L’orribile narrazione reca nei caratteri, nei segni, lo spessore oscuro e globale di un terribile silenzio. Chi volesse raffrontare questo silenzio immisurabile a quello originale, dovrebbe fare come l’attore che imita Virginio, come l’artista plastico che è unito a più stretto legame con la natura (la quale, per l’appunto, per definizione di Baudelaire, rimanda al sistema delle “corrispondenze”) e con il destino in quanto è forzato ad esprimersi sul filo narrativo del muto testimone. Ma una tale privazione di parola, come ben sappiamo, non è destino univoco del linguaggio plastico-figurativo, bensì anche di ogni linguaggio che s’incontri o commisuri inseparabilmente con quel tra gioco silenzio; quindi anche di quello della poesia e della filosofia. Lo scultore – dice Baudelaire – è più in accordo con la natura perché in ciascun uomo primitivo la tendenza a intagliare il proprio feticcio precede l’atto successivo del dipingere.

Lo scultore infatti intaglia, toglie dal silenzio Mancante di Logos la parola muta, la risale scuotendola dal suo terribile silenzio, la trae dalla penombra innanzi a noi, la fa leggere alla luce. Essa non si srotola attraverso la parola, non è verbale, ma pure si appella al dire.

Si sarà compreso, attraverso questa rincorsa di allusioni, peraltro assai poco forzosamente dedotte dai testi, che tutt’uno con l’impegno a essere lo scriba vero e proprio della Mancanza, del terribile silenzio, il linguaggio scultoreo di Monari ci permette di guardare ora alla radice della propria e previa identificazione fra scultura e poesia. Non è certo celato o ce-labile il debito che Monari contrae con il generale e incalzante turgore della letteratura heideggeriana del decennio degli ’80, tanto sul piano dell’ermeneutica filosofica, quanto su quello della più infatuata critica e assimilazione artistica. Il suo linguaggio scultoreo anzi, allude a una oscurità che tendenzialmente accenna al frammento di poema, prospetta un invito a cifre del destino sotto gli alti verdetti della escatologia occidentale che trae dai poemi di Hölderlin. Non solo, ma avendo origine in questi anni, non è dubbio il riferimento: il quale si attiva mercé la superiore tensione si gnificante e ridondante di cui son prova non solo le citanti o alludenti intitolazioni delle opere sino ad oggi, ma l’intero porsi a riparo della unificazione del pro durre dentro la ‘mandorla’, se si vuole, della poesia in cui trova il proprio punto di assetto e riposo. Va detto infine, che l’operazione deduttiva o assimilativa sul piano della ‘poetica’, in Monari, non è per nulla arbitra ria. Si può riscontrare infatti, nel particolare ritorno al ‘luogo’ quale supporto unificante della propria intenzione, un intreccio di molteplici proiezioni su quelle immagini della terra che Heidegger, in effetti sviluppa, specie nella riflessione posteriore agli anni ‘50, a signifi care il moto di ritorno del linguaggio sui passi della ‘terra natia’, per un rapporto vincolante alla ‘dimora’, allo ‘spazio’, all’atto orientativo umano che rende possibile e sensibile il linguaggio dell’essere. Tale moto pro pone, soprattutto a livello ancestrale, l’identificazione terrigena tra abitare – costruire – pensare che allude al l’originario terreno ove tutti i tracciati delle arti confinano con il Logos; così che nella semantica stessa del termine ‘arte’ (pensato alla greca), si sostanzia l’inclusione nel movimento unico e dicitore, aperto-soc chiuso, che, come sappiamo, mette capo alla produzione dell’opera d’arte. Una preminenza speciale nelle fraseologie coniate da Heidegger per considerare un tale movimento costituito dalla messa in opera delle produzioni artistiche, è quella rispecchiata dalle locuzioni di spazio e di movimento, quale per l’appunto, ‘fare spazio’, ‘aprire’, ‘dar luogo’, ‘trarre fuori’, ‘produrre’, sfoltire’, ‘disoccultare’, ecc. Tutte locuzioni che lasciano intuire il lavoro dello scultore. E difatti Heidegger vi fa riferimento, specialmente nelle riflessioni incentrate sul dialogo con lo ‘spazio’, e in due conferenze in particolare, dedicate alla scultura. In cosa consiste, infatti, la produzione dello scultore, a cominciare dal gesto dell’intagliatore d’idoli, rievocato da Baudelare? Heidegger risponde: consiste nello ‘sfoltire’, nel procedere per sottrazione, nel togliere con intaglio dis-occultante, nel fare-spazio, conferire volume, includere-escludere, e così via: “Senza dubbio il vuoto è in qualche modo affratellato con ciò che è più proprio del luogo e per questo motivo non è una mancanza ma un portare allo scoperto (…) Vuotare il bicchiere significa:raccoglierlo in quanto il contenente nel suo esser diventato libero. Vuotare in una cesta i frutti raccolti significa: preparare per loro questo luogo (…) Il gioco dei rapporti tra arte e spazio dovrebbe essere pensato a partire dall’esperienza di luogo e contrada. L’arte come scultura: non già una presa di possesso dello spazio (…) La scultura sarebbe il farsi-corpo di luoghi che, aprendo una contrada e custodendola, tengono raccolto intorno a sé un che di libero che accorda una dimora a tutte le cose e agli uomini un abitare in mezzo agli uomini [1969]”.

L’arte come scultura, quindi, ma soprattutto l’arte come pro-durre porta allo scoperto ciò che appare nel raccoglimento dis-occultato della voce destino, che è cantata dal poeta in un dire simile a quello che lo scultore accenna nel proprio dia logo non ottativo con lo spazio donativo, al modo in cui “Le opere di Omero e Pindaro, di Eschilo e di Sofocle, le opere architettoniche e scultoree dei grandi maestri parlavano (…) ossia indicavano il luogo a cui l’uomo appartiene; consenti vano di cogliere il luogo da cui l’uomo riceve la sua determinazione” [1961].

Tale lo scenario evocato dalla sacralità, dalla cerimonialità, dalla idealizzazione, di cui son cariche le figure a tondo di Monari, estendendo lo sguardo ora alle figure di cose, ai simboli a crudo e cotto altamente referenziali, depositari di altrettanti controllabili contenuti. Cose grondanti di terra, nate dalla stessa ‘logica’ del disboscamento costitutiva dell’atto del boscaiolo che ha cura del bosco, e del dissodamento della terra costitutivo del prendersi cura del contadino del proprio suolo. Sappiamo infatti che Heidegger concepisce il lavoro filosofico (poetico-pensante) in analogia con le due primordiali attività. Il pensatore è il più vicino al produrre del contadino avendo cura del luogo del pensiero come il contadino ha cura della terra che ara, semina, lavora, ‘custodisce’ nell’armonia che le è propria. In senso analogo, si può scorgere la similitudine con la ruvidità terranea delle cose-oggetti dissodate, sfoltite, incise, vuotate-raccolte da Monari, creando e come ricomponendo il cerimoniale di un’intensa dimora che è venuta meno, trattandosi spesso di forme primitive potenti e basali di una memoria oggettuale comunitaria che aveva collocazione e luogo nel campo di esistenza del contadino, del cacciatore, del sacerdote. Un’esistenza vieppiù simbolica avvolta nelle spire immediate delle celebrazioni e dei riti che istituivano il dialogo tra i “quattro”, per dirla ancora con Heidegger: cielo e terra, umani e divini. Così ecco i bracieri fumanti eretti al Silenzio, alla Mancanza, all’Appello degli dei, come in Pietra dell’assente [1988], o i portali megalitici eretti alle quattro dimensioni di Porta dei tramonti [2010], vera e propria provocazione di uno spazio ove il gioco del racchiudere e dell’aprire si fa volume che racchiude un dire, lo spazio di un parlare. Ciò comporta che il rilievo limitativo mosso da Baudelaire alla scultura – quello d’essere cioè un’arte troppo simile alla natura, “positiva” e “brutale” come essa, più incline a entrare in comunione con il sentimento del contadino che con quello del borghese cittadino – possa acquistare, per converso, una luce assai positiva. Infine, tali oggetti sfoltiti dal remoto, più o meno rurali, tali cose dissodate che esprimono un che di affatto rugoso e terrigeno, credo ineriscano, possiamo dirlo, all’eroismo rammemorante e inopportuno con cui questo scultore ha opposto e oppone, con eloquenza inattuale, una celebrazione della natura veramente mal digerita se associata nuovamente, in qualche modo, come nel caso suo avviene, al ‘terreno’ dell’arte e alla relazione con lo ‘spazio’.

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